Luigi Narni Mancinelli, “Il Basic Income e il diritto di fuga dal mercato del lavoro”

Luigi Narni Mancinelli, “Il Basic Income e il diritto di fuga dal mercato del lavoro” [The Basic Income and the right to escape from the labor market], Basic Income Network Italia. January 29, 2014.

ABSTRACT:

Secondo la definizione di Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght il Basic Income è “un reddito versato da una comunità politica a tutti i suoi membri su base individuale senza controllo delle risorse né esigenza di contropartite”[1]. Le caratteristiche di universalità, individualità e non condizionatezza dell’erogazione del reddito sono dunque alla base di questa proposta di riforma sociale e vanno spesso in aperta contraddizione con altre concezioni di reddito minimo esperesse teoricamente o applicate in alcune nazioni. Il reddito elargito dallo Stato o dal governo di una particolare regione può essere infatti condizionato dall’accettazione di un lavoro subordinato o di un percorso di formazione lavorativa e spesso viene visto come un momento intermedio prima del reinserimento del disoccupato nel mondo del lavoro. Per quanto riguarda invece la forma di universalità del reddito, nelle diverse legislazioni ci troviamo sovente di fronte a specifiche misure rivolte a fasce di popolazione, cui viene rivolta l’erogazione monetaria, individuate in base a condizioni economiche svantaggiate per povertà, mancanza di integrazione etc. La mancanza del requisito di universalità si accompagna così anche all’assenza del target di individualità: i sussidi possono riguardare famiglie indigenti le cui risorse economiche vengono preventivamente scandagliate a fondo fino a trovare condizioni di estremo disagio cui rivolegere un intervento di carità sociale riguardante l’intero nucleo familiare.  Così come è stato concepito nei suoi caratteri essenziali, dunque, il Basic Income non ha trovato fin ora realizzazione compiuta e la diffusione di forme di reddito minimo, salario sociale, sussidio di disoccupazione, ha complicato il campo di analisi e di studio di questa proposta complessiva di riforma sociale confondendone i contorni di applicazione oppure considerandola come una prospettiva utopica di difficile realizzazione relegandola così nel campo delle proposte irrealizabili. Universalità, individualità e incondizionatezza dell’erogazione monetaria sono andate in secondo piano rispetto all’esigenza di tutelare sì il patrimonio di fasce sociali e famiglie, ma in primo luogo nell’ambito del controllo e della riorganizzazione del mercato del lavoro. La proposta di reddito minimo garantito si è dunque inserita anche nel filone di pensiero neoliberale in cui, permanendo il ricatto all’assunzione di un lavoro precario e sottopagato nel contesto di società con fortissime diseguaglianze sociali, si concepisce il sostegno al reddito come sostegno per la semplice riproduzione fisica della forza lavoro. In questo caso si manifestano somme particolarmente basse di erogazione monetaria, fortemente condizionate dall’accettazione di proposte di inserimento professionale spesso con obbligo di lavori socialmente utili e/o corsi di orientamento e formazione, e più in generale con un forte controllo sociale esercitato dallo Stato sui cittadini individuati come risorse da ricollocare nel circuito dello sfruttamento e della centralità dell’impresa privata. È noto come nella Scuola di Chicago in cui si è formato il pensiero neoliberista diversi economisti, tra cui Milton Friedman, abbiano sviluppato questo indirizzo teorico di una declinazione di reddito minimo che si allontana con decisione dalle caratteristiche del Basic Income individuate da Van Parijs anni addietro. Per comprendere appieno questa apparente contraddizione dobbiamo considerare l’attuale sviluppo del capitalismo, nella fase cosiddetta postfordista o neoliberista che si è consolidata a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, non semplicemente come un processo di ritirata dello Stato e della spesa pubblica destinata a fini sociali, ma più organicamente come una fase di ristrutturazione complessiva del mercato del lavoro e della subordinazione lavorativa alla luce dei nuovi processi di accumulazione e di valorizzazione: “Il neoliberismo non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività. Detto altrimenti, con il neoliberismo ciò che è in gioco è né più né meno la forma della nostra esistenza, cioè il modo in cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi. Il neoliberismo definisce una precisa forma di vita nelle società occidentali e in quelle società che hanno scelto di seguire le prime sul cammino della cosiddetta “modernità”. Questa norma impone a ognuno di vivere in un universo di competizione generalizzata, prescrive alle popolazioni di scatenare le une contro le altre una guerra economica, organizza i rapporti sociali secondo un modello di mercato, arriva a trasformare perfino l’individuo, ormai esortato a concepire se stesso come un’impresa”[2].

Assieme alla crescita della tipologia postfordista dell’organizzazione della fabbrica, della diffusione di un’impresa più snella, agile, senza scorte di magazzino, con una produzione just in time in un contesto aperto di concorrenza, il lavoratore si è trovato sempre più spaesato e ricattabile, mentre le sue conoscenze pregresse, il suo bagaglio formativo viene sempre più utilizzato dalle aziende senza retribuzione. Se si investono anni e denaro in una formazione permanente, totale e infinita del lavoratore, spesso non troveremo che aziende disposte a sfruttare corsisti, stagisti, laureati che lavorano, quasi gratis, il doppio di altri lavoratori, ormai sempre di meno, assunti decenni prima con contratti a tempo indeterminato. Questo processo si intreccia fortemente con la svolta finanziaria dell’economia, con la forte e crescente finanziarizzazione dei processi produttivi e delle sorgenti di accumulazione del capitale, così come enormi sono le rendite e i trasferimenti di ricchezza ottenuti grazie allo sfruttamento delle economie esterne e della cooperazione degli individui cresciute al di fuori della subordinazione lavorativa. È chiaro dunque come il reddito minimo di inserimento proposto dai teorici liberisti si contrapponga ad una visione di Basic Income fondata sulla riappropriazione da parte dell’individuo di questa gigantesca accumulazione di denaro ottenuta gratis dal capitale grazie ad uno sfruttamento sempre più esteso e intensivo delle forme di cooperazione e comunicazione delle persone, del linguaggio così come della formazione della conoscenza delle singolarità, in una parola delle “soggettività”. La prospettiva della piena occupazione e di una politica economica che metta l’accento sul principio costituzionale della Repubblica “fondata sul lavoro” diventa sempre più inconciliabile con la sfida della creazione di un nuovo welfare che protegga tutte quelle fasce di soggetti non più tutelati dalla scomparsa e dalla ristrutturazione neoliberista dello stato sociale costruito con il vecchio compromesso fordista ormai saltato in aria: “di cosa si occupano i non occupati? E cosa se ne fa il capitale delle loro vite? I cosiddetti non occupati, tra cui bisogna annoverare un gran numero di lavoratori intermittenti, temporanei, occasionali, costituiscono il più grande se non l’unico laboratorio di sperimentazione e progettazione di nuovi servizi e attività culturali, sociali, politiche, nonché di attività produttive minori, in perenne conflitto con norme e regolamentazioni imposte da burocrazie nazionali ed europee che operano al servizio di corporazioni e poteri forti. Il tutto fiscalmente penalizzato nell’illusione, di incrementare il mercato del posto fisso. Per tornare a una formula più volte ribadita esiste una vasta cooperazione sociale produttrice di ricchezza, non riconosciuta in termini di reddito e di garanzie. Quanto alla seconda domanda, il capitale cattura a piene mani, trasformando in sua proprietà o in suo prodotto, procedimenti e risultati di questo insieme complesso di attività, avvalendosi anche di un apparato giuridico e contrattuale che spudoratamente lo agevola. Volendo dirla in maniera un po’ sfacciatamente provocatoria, tutti i discorsi sulla piena occupazione non fanno i conti con il fatto che la piena occupazione esiste già e si dà appunto in questa forma e con queste modalità. Si potrà certo obiettare che siccome i singoli e le collettività cercano sempre di tirare a campare, messa così la piena occupazione c’è sempre stata, ragion per cui questo discorso sarebbe privo di senso. Tuttavia mi sentirei di controbattere che in altre epoche e in altri contesti la massa degli esclusi vegetava in condizioni soggettive e oggettive di sostanziale passività. Non è certo questo il caso della “inoccupazione” contemporanea segnata da un attivismo evoluto e inventivo che produce indirettamente profitti, ma non riceve direttamente alcun reddito. Considerare dunque il reddito di cittadinanza, non come un ammortizzatore sociale, ma come retribuzione della partecipazione a questo processo di produzione della ricchezza costituirebbe la base dell’autonomia economica e politica dei singoli e non la sua negazione. La possibilità di sottrarre il proprio agire a una condizione di ricatto”[3].  Il reddito garantito non dovrebbe essere dunque vincolato al lavoro e strutturato esclusivamente in vista di una misera riproduzione sociale della forza-lavoro da ricollocare sul mercato con il fine di tenerla pronta alla sfida della competizione ma pur sempre ricattabile e sulla soglia mobile della povertà e dell’esclusione sociale. La società potrebbe maggiormente diversificarsi e crescere culturalmente procedendo aldilà della subordinazione lavorativa, oltre l’inglobamento di tutte le attività di creazione individuale  e di cooperazione sociale sotto la rigida corazza della gestione salariale. Questa diversificazione potrebbe agire creando un circolo virtuso in grado di influenzare positivamente anche il mercato del lavoro garantendogli nuovi e più alti standard una volta apertasi una competizione positiva grazie al riconoscimento della cittadinanza di tutte queste pratiche, elaborazioni e produzioni alternative. Andrebbe quindi affrontato un cambiamento anzitutto dal punto di vista culturale che punti allo spostamento delle enormi risorse oggi destinate allo sviluppo delle imprese private, della concorrenza e del mercato, al campo dell’esercizio dell’autonomia dell’esistenza degli individui. Le criticità dell’applicazione del reddito garantito riguardano infatti principalmente il finanziamento della misura e il rapporto con il lavoro salariato. Il finanziamento riguarda scelte socio-economiche di fondo, come l’eventuale riduzione della spesa militare, una tassazione più equa ecc. Il rapporto tra reddito garantito e mondo del lavoro salariato è un processo complesso che andrebbe sì affrontato per gradi e in divenire, ma tendendo al superamento della totalizzazione del rapporto di subordinazione lavorativa. Il Basic Income potrebbe innescare un processo virtuoso che influenzerebbe il mercato del lavoro alzando gli standard generali. Ciò non toglie che si aprirebbero comunque delle grosse contraddizioni con il mercato e l’impresa privata che sarebbe però interessante poter verificare, approfondire e sviluppare. Usare la prospettiva di sostegno al reddito unicamente come mezzo per ricollocare i fuoriusciti dal mercato del lavoro nella posizione precedente fa perdere alla collettività un’occasione di crescita generale. Il problema va dunque posto prendendo di petto tutte le attuali ed egemoni obiezioni presenti nel dibattito pubblico rispetto la creazione di un reddito di esistenza sgnaciato dal lavoro analizzando l’obsolescenza di tutte quelle teorie che considerano parassitario l’uso del Basic Income per i non occupati e un limite per la crescita complessiva della società. Con una progressiva diversificazione delle forme di attività “potrebbe verificarsi un effetto complessivamente incentivante del basic income secondo la logica di quello che, osservando l’esodo di massa dei profughi dalla Germania est nell’estate dell’89, si potrebbe chiamare ‘il paradosso della Rdt’. Il paradosso è questo: se il governo della Rdt avesse concesso ai suoi cittadini il diritto ad andarsene, molti sarebbero rimasti. L’errore di non aver riconosciuto questo diritto fu una delle cause immediate della decisione di molti di fuggire illegalmente. Applicando questa logica al mercato del lavoro e al sistema garantito dal basic income, si potrebbe prevedere che il ‘diritto di partire’ indurrebbe molte persone a ritirare la loro forza lavoro dall’impiego formale, cosa che potrebbero permettersi data la sicurezza del basic income e la conseguente reale possibilità di scelta dell’impiego. Quei lavoratori marginali che sono rimasti sul mercato del lavoro per paura che uscire significasse non tornarci più, farebbero certamente questa scelta. Ma questo ‘diritto di andarsene’ verrebbe usato, in una misura che non
conosciamo, ma che difficilmente sarebbe irrilevante, anche per acquisire nuove abilità sociali e tecniche e per liberare energie e inclinazioni che faciliterebbero infine il ritorno volontario al lavoro salariato. Così l’effetto finale sarebbe, da una parte, un modello di vita più flessibile e fondato sulla scelta, e, dall’altra, una riqualificazione della forza lavoro, fattori che potrebbero entrambi concorrere a una nuova situazione di piena occupazione sulla base di un segmento di vita dedicato al lavoro formale notevolmente più breve per il cittadino medio”[4]. Si tratta dunque di pensare il Basic Income anche e soprattutto in funzione di questo diritto di fuga dalle maglie del lavoro subordinato e non come un mero inserimento in un modello di competizione globale che sta procurando danni incalcolabili anche dal punto di vista di sostenibilità ambientale. Tutte le produzioni nocive all’ambiente, alla salute, tutto l’obsoleto impianto industriale che provoca inquinamento e devastazione dei territori ha come unica alternativa sostenibile una sua riconversione basata principalmente sulla fine del ricatto della disoccupazione. Più in generale è la stessa nocività sociale della strutturazione del lavoro salariato che può essere messa in discussione solo con l’adozione del Basic Income.

Luigi Narni Mancinelli

Note

[1] P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, Egea, Milano 2006

[2] C.Laval-P.Dardot, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Derive Approdi, 2013, Introduzione

[3] M.Bascetta, Reddito di cittadinanza: una libertà fuori dal mercato, ilmanifesto 19 giugno 2013

[4] C.Offe, Un disegno non produttivista per le politiche sociali, in AA.VV. Tempo e democrazia, manifestolibri, Roma, 1997, p.105

WELLINGTON, New Zealand: Reducing Inequality through Universal Basic Income

SPEAKER: Perce Harpham
DATE: Friday, 31 January
VENUE: Rutherford House, Lecture Theatre 3, Institute for Governance and Policy Studies, Victoria University of Wellington
TIME: 12:30pm – 1:30pm

ORGANIZER’S SUMMARY: Universal Basic Income (UBI) is an idea whose time may have come.  Although the idea of a UBI was first mooted around 1800, the financing of it appears always to have been considered separately.  In this IGPS seminar, Perce Harpham will discuss the beginning of a solution by considering both a Universal Basic Income and an Asset Tax to finance it. By choice of appropriate levels of the variables Perce will argue that  both tax and benefit systems  can be simplified and inequality reduced.  In so doing, he will draw on recent examples of innovation in this field: most notably the forthcoming vote in Switzerland, and the advocacy campaign by a Conservative Canadian Senator.

Perce Harpham

Perce Harpham

ABOUT THE SPEAKER: Perce Harpham was born in Tauranga Perce graduated as a Chemical Engineer from Canterbury University and worked for Dulux paints for 14 years. Being seconded to ICI in England in 1957 and then to the head office in Australia before returning to New Zealand (NZ) and progressing through Production Manager to being in charge of setting up and managing Dulux’s computer, the fourth in NZ. When Britain joined the Common Market he set up the first software company in NZ. It prospered, for 21 years with offices throughout NZ and Australia as well as Chicago, Los Angeles and Beijing. Perce has a long history of proposing solutions to NZ’s problems with slight success. He stood for the Green Party in Hutt South in 2002 but has since joined the Labour Party.

For more information go to: https://igps.victoria.ac.nz/events/Upcoming%20events/index.html#31jan

Allan Sheahen tours to promote his book, the Basic Income Guarantee: Your right to economic security

Allan Sheahen, an author and an activist for basic income, is touring the United States making television, radio, and personal appearances to promote his book, the Basic Income Guarantee: Your right to economic security. He has also published several Op-ed pieces related to the book.

Sheahen is making the following radio appearances:

1. June 4. WWNC. Ashville, NC. Peter Kaliner show.

2. June 10. KBYR. Anchorage, AK Glen Biegel show.

3. June 13. WBAL, Baltimore. Jimmy Mathis Show.

4. June 19. WGN. Chicago. Carol Roth show.

5. June 27. WILS, Lansing MI. Michael Cohen Show.

6. July 2. WKBN, Youngstown OH. Dan Rivers Show

7. July 3. WTCM. Traverse City, MI Norm Jones show.

8. July 10. WCUB, Manitowic, WI. The Breakfast Club.

9. July 12. KAHA, Auburn CA. Shea Cullen Show for Seniors.

Sheahen is making the following person appearance at a civic group:

1. July 16, 7PM to 9PM, Valley United Democrats, 6150 Van Nuys Blvd. Van Nuys, CA, 91401

Sheahen has published the following Op-ed pieces:

1. Allan Sheahen, “Jobs Are Not the Answer,” Lima News (Lima, Ohio), Thursday, June 13, 2013
2. Allan Sheahen, Guest Columnist, “Basic income, not jobs, is the answerOn Your Mind, Dayton Daily News (Dayton, Ohio), Monday, June 17, 2013
3. Allan Sheahen, “Jobs Are Not the Answer,” Public Comment, Berkeley Daily Planet (Berkeley, CA), Monday June 17, 2013
4. Allan Sheahen, “Jobs Are Not the Answer,” Tikkun, Truthout, Thursday, 20 June 2013

Allan Sheahen

Allan Sheahen

Allan Sheahen is a board member of the U.S. Basic Income Guarantee (USBIG) Network and the author of several books and articles including his most recent book, Basic Income Guarantee: Your Right to Economic Security, which is now out on paperback from Palgrave-Macmillan. Sheahen can be reached at: alsheahen@prodigy.net.

More information about his book is online here.
And
The publisher’s website for his book is online here.

https://i0.wp.com/resources.macmillanusa.com/jackets/500H/9781137347886.jpg?resize=324%2C500&ssl=1

"Basic Income Guarantee: Your right to economic security," Allan Sheahen's latest book

OPINION: Basic Income, QE3 Plus, and the Euro crisis

By Gary Flomenhotf

Not everyone follows the actions of central banks, such as the private bank cartel called the US federal reserve (the fed), but you should know what the fed is up to lately:  QE3[1] PLUS! See article here. You may know that QE3 is a fed program to purchase $40 Billion in mortgage bonds per month from banks, basically taking crap off their hands and making US citizens pay for it.  The latest plan is to add $45 billion in Treasury bonds to that. These are open market operations where the Treasury bonds are bought from banks, thereby increasing the money supply and supposedly lowering interest rates further.

The US Treasury pays interest on Treasury bonds, and the fed supposedly returns most of it to the US government as profit.  But the fed only owns a small fraction of the US debt, much of it is owned by foreigners and banks. The government doesn’t get that interest back, and it is the cause of sovereign debt crises, when interest on governments’ debts becomes unpayable.

Just to remind people where the fed’s money comes from, the fed prints it, or nowadays types it into a computer account as a bank balance.  Since the US Treasury outsourced the creation of money in 1913, the fed has produced a small part of the money supply directly, and the rest is created through fractional reserves by private banks, about 95%.  This is called variously seigniorage, money creation, or monetary supply, which is a sovereign privilege of the state given over to central banks and private commercial banks worldwide.  Under 100% reserve requirements, the central bank would create the entire money supply and not commercial banks. The IMF recently published a surprising essay called “The Chicago Plan Revisited” discussing this idea, first promoted by major economists in the 1920’ and 30’s.  A trial balloon perhaps?

The Treasury could also issue the entire money supply as interest-free US Notes or bank balances and do away with the central bank entirely.  The US Treasury has issued these notes in the past starting with Greenbacks issued by President Lincoln to finance the US Civil War.  100% reserve requirements are essential to end the loss of money creation to banks and the resultant interest paid on every dollar of money in the economy.  Banks opposed the Chicago Plan in the 1930’s because it takes away their privilege of collecting interest on money they create from nothing, when they make loans using fractional reserves.

The total of QE3 PLUS is $85 Billion per month.  Doesn’t sound like much these days with debts in the trillions, and derivatives in the hundreds of trillions, but let’s figure it out.  Take the US population of about 315 million and divide into $85 billion and you get $270 per month or $3240 per year.  How would you like that or $12,960 per year for a family of four as a basic income?

The fed is not allowed to finance citizens, states, or municipalities, only banks and the Treasury.  And remember that US states are forbidden from issuing “bills of credit” by the Constitution (Article 1, Section 10, Clause 1).  For more on this see Vermont currency commons website.  Now this reminds me of a joke I heard when Iraq was writing their new constitution after we invaded and instituted “regime change”.  “Why don’t they take our constitution, we’re not using it.”  Congress is supposed to coin the money supply, not banks,  as stated in Article I, Section 8, Clause 5.  I see no reason to follow this prohibition since the national government isn’t following the Constitution, but let’s leave it be.  States can create public banks, and these banks can issue credit that is not considered an illegal state bill of credit. States could also issue warrants or other IOUs as California has done on two occasions.  See currency commons article on California.

The problem in Europe is that countries have given up their sovereign monetary policy when they joined the Eurozone, as US states did when they ratified the Constitution and joined the union in 1789.  Even EU countries that haven’t joined the Euro like England, Denmark, and Sweden still let banks issue most of the money with interest, so they are at the mercy of the banksters.  I suspect even Iceland, which told the bondholders to take a hike, is still letting banks create all the money with interest.  Old habits die hard…

Anyone traveling to the Eastern Caribbean, for example, will find transactions taking place in Eastern Caribbean Dollars, US dollars, and Euros side-by-side without much difficulty.  So there is no practical reason for countries to give away their monetary policy to a central authority.  It is the interest paid on private money creation that is the problem, not the sovereign monetary authority of individual countries. For more on this see Dr. Margrit Kennedy’s website.

So what would happen if central bank quantitative easing and open market operations were redirected to basic income payments to individuals rather than loans to banks?  Let’s not forget that the fed has already issued QE1 and QE2 without much result.  QE1 was $1.25 trillion and QE2 was $600 billion for a total of $1.85 trillion.  That is $5873 for every person in the US given to banks, in a form of “trickle-down” theory that it will eventually benefit the economy.   Don’t you think it would have been more effective to pay directly in a dividend check to citizens amounting to $23,492 for a family of four?  A sovereign state or country could issue its own public credit money without interest, and get out of the bankster racket that pays interest on money they create out of thin air. Guernsey did it starting in 1822.  Any country or state could do it, and even issue it as an interest-free basic income, trickle-up, not “tinkle-down.”

About the author:

Gary Flomenhoft is an International Post-Graduate (IPRS) and University of Queensland Centennial Scholar and PhD Candidate at Centre for Social Responsibility in Mining. His research area is the economic value of common wealth and governance of Sovereign Wealth Funds.

Prior to enrolling at SMI, Gary was a faculty member for 11 years in Community and International Development and Natural Resources at the University of Vermont (UVM), serving as a Lecturer in Applied Economics, Renewable Energy, International Development, and Public Policy. He conducted many development projects in The Commonwealth of Dominica, St. Lucia, and Belize with students and local partners. He also originated and coordinated the Green Building Design Program at UVM.

He had a secondary appointment as a Research Associate and Fellow at the Gund Institute for Ecological Economics under Director Robert Constanza. His primary research was in public finance for the state of Vermont including green/environmental taxes, common wealth and common assets, subsidy reform, and public banking. His 2013 report on Vermont public banking formed the basis of the “10% for Vermont” legislation passed in 2014, which allocated $35 million of state funds to local investment. He directed the grant funded Green Tax and Common Assets project at the Gund Institute for seven years, where he originated the Vermont Common Assets Trust Fund (VCAT) bill, which was submitted to the legislature twice. His chapter on Vermont Common Assets appeared in the book “Exporting the Alaska Model”, which promotes the Alaska Permanent Fund and Dividend as a model for basic income around the world using Sovereign Wealth Funds.


[1] QE means quantitative easing, a fed policy of purchasing bank securities in order to increase the money supply to encourage additional lending by banks, and lower interest rates